Il mio primo racconto lo scrissi nel
1992, all'età di dodici anni. Era una scimmiottatura di Ventimila
leghe sotto i mari, ma non è di questo che voglio parlare. La cosa
che ricordo con maggiore affetto di quel racconto è la macchina da
scrivere che ho usato. Era stata acquistata da mio nonno in Svizzera
negli anni 60 e poi regalata a mio padre, il quale non la utilizzava
quasi mai se non per scrivere lettere formali dall'impaginazione
impeccabile. Quando mi concessero di poterla usare ero emozionato e
intimorito. La bic blu sul foglio a quadretti era una cosa da
pivelli, noi grandi autori avevamo la macchina da scrivere, mi
dicevo. Quando cominciai a picchiettare i tasti e le asticelle
metalliche iniziarono a battere con forza sul foglio arrotolato
scattò qualcosa. Una sorta di sensazione di onnipotenza. Dalla mia
fantasia le parole si facevano inchiostro e si presentavano con
un'eleganza molto più matura di me.
L'imprinting di quell'esperienza me la
porto dietro ancora oggi, pigiando inutilmente con forza la tastiera
del computer. Ma non è solo questo. Da allora non ho più smesso di
scrivere, ho buttato giù decine di racconti, centinaia di poesie e
addirittura tre film, di cui uno l'ho anche girato. E ogni volta che
mi metto a scrivere qualcosa torna ad allora. A quella macchina da
scrivere, a quei martelletti che trasferivano l'inchiostro da un
nastro al foglio, a tutte le sue sbavature e a quell'emozione provata
la prima volta. Non stupitevi quindi che in gran parte dei miei
lavori, in un modo o nell'altro, compaia una macchina da scrivere.